Circoscrivere a una nota di qualche pagina la complessità dell’esperienza poetica di Carmine Valendino è cosa ardua. L’uomo-poeta, perché Valendino tale è, il conferenziere, il docente, il principe nero e la sua evoluzione dionisiaca, tutto coesiste e si completa nello spessore culturale e umano di un Autore che giunge alle stampe, dopo altre prove di ricerca poetica, con un nuovo libro, Sul primo rosa, controverso e ossimorico.
La silloge, infatti, si compone di due capitoli-sequenze che, essenzialmente, tendono a una contrapposizione di toni, vissuti evocativi, colori, pur mantenendo una struttura lirico-narrativa unitaria e consapevolmente controllata.
Il primo, duro, senza possibilità di scampo, in cui il fato, la negazione metaforica del colore, trasfigurata nel nero, estensione gotica della sofferenza e del dover-essere (e nella latenza desiderata del rosso, colore-passione), la tendenza al tragico, seppur smorzata dallo stile poematico, il lutto in sé e fuori-da-sé, governano una materia poetica densa, magmatica.
Il secondo, all’opposto, disteso sia nell’elegia sia nella forza rigeneratrice di Eros, regolato dalla variazione di toni e colori, tra i quali spicca la presenza decisa della tinta rosso-rosa, volutamente chiari come un’alba ingabbiata nella fulgida promessa di stupore: è in questa evoluzione tonale-simbolica che si nota una forte scelta stilisticamente diversa, determinata dal cambiamento esistenziale dell’Autore e dalla necessaria traslazione del sentimento in una sorta di estasi, di mimesi, nella forma-vita della sequenza lirica.
È la complessità dell’uomo, in sostanza, la sua scissione nel sentire il mondo, che interessa: la pulsione distruttiva del lutto, il titanismo con cui giustificare ciò che accade, e da cui lasciarsi trascinare nella purificazione poetica, innanzitutto; il superamento estetico di tale dimensione nella sua componente dionisiaca, immanente, derivata dalla percezione di una rinascita dell’Io nelle cose.
Ne deriva una poesia a doppio binario, in cui la chiusura del Sé in schemi fissati e materialmente inerti (...nel perdurare di un sogno/a lungo trattenuto/e d’un bacio mai avuto/s’infrange l’illusione/di una foglia leggera,/come un’anima persa/nel silenzio del nulla.) evolve in squarci di potenza creatrice evocativa e quasi autodistruttiva (...bevo fresche gocce di luna/per dissetarmi/ d’amore e sogno. Tanto a lungo abbiamo danzato/fantasiose sciarade, tra delicati/ed eburnei raggi nuovi di luna.). È questa, a mio parere, l’originalità del libro, la sua sconvolgente miccia lirica che caratterizza l’evoluzione di un poeta che ha fatto della poesia indagine di vita, sua sostenibilità.
Ciò che urge, ora, è che Valendino compia il passo successivo, anch’esso necessario: rendere l’Io dimensione naturale, facendo emergere, in tal modo, la complessa e destrutturante presenza del Noi, e universalizzando il sentire poetico in tessuto comune, luogo condiviso.
Dalla prefazione di Ivan Fedeli
Copertina del pittore Giuliano Giuggioli