Ricombinato il DNA linguistico giocando sul termine “Caput Mundi”, il titolo del poemetto di Simonetta Sambiase ci riporta a un momento storico caratterizzato dalla centralità della penisola per poi, da epiche evocazioni di fasti e potere, slittare verso una metaforica geografia del presente suggerita dalla polisemia della parola “capo”. Quindi chi legge il titolo rimane un po’ spiazzato, e, come per il Finisterre montaliano, è chiamato immediatamente ad attivare i neuroni, uscire dagli automatismi grazie a questa commistione linguistica-storica-geografica.
Movimento e stasi si alternano per tutto il poemetto ricombinandosi anch’essi in risvolti inediti che rivelano paradossali “agnizioni”, per usare un termine caro alla poeta, in cui nel movimento accidentato di interi popoli si riconosce non solo l’idea di viaggio in generale, quello che le traversate hanno rappresentato per la scrittura (dal “capo” geografico agli “a capo” del verso) ma i “passi” e i “trapassi” della vita di ognuno, saldamente piantati nell’oggi, nel ventunesimo secolo “nuovi accenti di un mondo liquido / pieno di sopravvissute anime invisibili”.
Osservatorio privilegiato è spesso il corpo, inequivocabilmente quello femminile, con continue trasposizioni tra esperienza individuale, storica e geologica di termini quali gestazione, contrazioni, parto, flussi. Le “occasioni” fornite dalla poeta nei tre movimenti dell’opera “L’approdo”, “La frontiera”, “Ballata imperfetta verso Capo Mundi” si agganciano a visioni filosofiche, teoriche, scientifiche, sociologiche saldamente ancorate all’oggi.
Quella che viene creata, man mano che ci addentriamo nelle 37 suddivisioni del poemetto, è una poetica in grado non solo di rappresentare l’andamento di un mondo interiore ed esteriore ma a capace anche di fornire al lettore o alla lettrice gli strumenti adatti per percepire bisbigli, epifanie e apocalissi, perfino quando a emanarle sono “i santi minori” o l’olio che sfrigola in una padella di periferia. Alla ricchezza di immagini, alle frequenti sinestesie, si unisce un’eleganza, talvolta opulenta, di linguaggio e di struttura, una ricerca rigorosa di una originale lingua poetica, pur facendo talvolta l’occhiolino alla tradizione come accade nell’incipit, col dispiegamento strategico di quel “sta” e “Immota” che sembra dialogare con quel caposaldo della poesia civile che è “Il 5 maggio” di Manzoni. La sestina conclusiva ci riporta invece sul terreno più popolare dell’invocazione, una litania magica e con-temporaneamente laica, un augurio che ogni sasso sarà la fine del suo mondo / ogni mondo porterà lontano le ferite / ogni lontano gli purificherà il dolore.”
Pina Piccolo