Due sillogi poetiche intense di due bravissime autrici contemporanee.

SEGRETA 
di Daniela Cattani Rusich

Una poesia densa di atmosfere e di suggestioni. Questa, a un prima lettura, sembra essere l’intenzione comunicativa di Daniela Cattani Rusich che, nel tono rarefatto e ben orchestrato di questa nuova silloge suddivisa in due sezioni, sperimenta versi di varia lunghezza secondo moduli ritmici incisivi e vari, segnando un netto cambiamento di rotta rispetto alle precedenti prove.
La caratteristica rilevante, vista la tendenza della poesia contemporanea ad appuntire il linguaggio troncando così l’aspetto fonico della parola, è la personale costante ricerca dell’Autrice, che tende invece a fondere – orgogliosamente - scrittura e oralità in direzione di una ritrovata sinergia tra parola e segno, tra fonema e significato.
Ne è riprova l’originale parentesi della prosa in versi, possibile sviluppo di una sperimentazione tutta in fieri, che sa dove cercare nuovi stimoli creativi: “E ne ho di parole pietre, di parole spilli da conficcare negli occhi...”.
La citazione, riassuntiva del clima di Segreta come libro in continua evoluzione, multiforme e poliedrico, è una dichiarazione di poetica che tratteggia un intento riformulativo del linguaggio secondo schemi mai fissi o dati e che, come tale, rivela altro: ovvero un progetto di estensione del poetabile a ogni aspetto della realtà.
In tal senso la voce della Rusich si allinea a un movimento di scrittura contemporaneo che contempla altri nomi nuovi di spessore, quali Iole Toini, Liliana Zinetti, Daniela Raimondi: con esse l’Autrice condivide il gusto per la rottura-ricostruzione del tessuto poetico in forme liriche diverse e lo scavo delle potenzialità espressive insite nella sensazione del dolore-mancanza; infine rinascita o marchio impresso a fuoco.

“Vanno cercando l’alla dell’angelo/sotto un inferno di macerie" e ancora “Non sarai sponda/senza il mio naufragio” (‘Femmine scalze’ e ‘Scendi!’)

Ciò che la differenzia e la rende voce originale è soprattutto la varietas, da intendersi come analisi a tutto tondo dell’emotivo e, contemporaneamente, come forza di sintesi quasi epigrafica, attraverso cui molti testi chiudono in modo netto ma tremendamente dolce la situazione poetica. Questo perché, più ancora che poesie, verrebbe proprio da definire “situazione poetica” la vera forza che soggiace come magma all’esperienza di scrittura della Cattani Rusich.
“… Ora mi dici: il vento è tornato/Io ti rispondo: le nuvole vanno...”; “Da carne a carne, da sangue a sangue:/ il filo reciso-ma-acceso aleggia infuocato nell''aria”; “E io sento la notte /che mi riempie e mi placa.”, sono solo alcuni esempi di congedo lirico - emblematicamente nella forma del distico o dell’ipermetro tra parentesi - definitivo, quasi tutto il discorso precedente venisse fagocitato dalla straripante potenza evocativa degli ultimi versi.
Quando, in seconda analisi, il discorso generale si fa più complesso, con riferimenti colti a lingue arcaiche, a citazioni, a riferimenti letterari, il respiro dell’opera diventa più energico e il piano di lettura procede naturalmente per intuizioni e analogie. Esce allora l’anima del poeta, la sua predisposizione al sentire.
È il dramma umano in atto che emerge, senza filtri o indugi lirici gratuiti, e con esso la grandezza della poesia vera, in cui l’io trascende in dimensione universale e si annulla proprio perché appartiene a tutti. È questo quanto affiora dalla seconda sezione del libro, permeata da una maturità espressiva densa, dalle forti connotazioni etiche. Una poesia, insomma, da leggere più volte e fatta per essere nostra, quella di Daniela, che cela sapientemente i suoi codici, rivelandoli via via con fare quasi sornione, lieve, sorridente (ma è un sorriso doloroso, una ruga amara), rendendoli così misura comune.
La sua è una poesia-sfida per il lettore che vuole ferirsi e rinascere, oltre le banalizzazioni del presente e, nel contempo, dono e splendida minaccia, labirinto in cui perdersi alla ricerca di una via d’uscita.

Ivan Fedeli

STANZE DEL NORD
di Federica Galetto

Leggendo Stanze del nord siamo immediatamente trasportati all’interno di due perimetri concentrici, la casa e il paesaggio, quasi due trincee entro le quali lasciarsi andare ad una solitudine invitante, ad una clausura volutamente inviolabile che nello stesso tempo si rivela essere attesa di un prodigio e dove quel prodigio si rivela non essere altro che la scrittura (o la riscrittura di sé).
Entriamo dunque. Siamo dove totalmente assente è l’ordinario. Ogni pur piccolo elemento è visto con acutezza e partecipa della vita della poetessa, condivide il suo percorso e le sue folgorazioni nel serrato confronto con la natura, con il passato, con gli intercalari lasciati scoccare come alleluia in un santuario così echeggiante dei propri spasimi da farle scrivere di punto in bianco che cosa fai/ sulle guglie del mio capo.
La casa s’adorna del vissuto, è disciplina. Nel suo silenzio viene popolata da presenze confortanti, come quando la Galetto scrive al tavolo dell’angelo che mi ascolta. Così, nelle camere distanti/ nei corridoi spinti al fondo delle ragioni il suo intuito si dipana in un continuo interrogarsi, soccombere e rianimarsi.
Le stanze posseggono la luce soffusa dei timori e al contempo sono culla, sono accoglienza per ogni dopo. Nelle stanze del nord si offuscano i toni; voluttà del non colore dove il tema del dolore sembra concedersi spazio e vita da esaudire.
Eppure in questo vivere appartato tutto è contenuto in una dimensione di comunanza. L’io poetico si nutre di questo pascolo domestico con venerazione, ama le infinite minuzie e le vastità ariose che da lì si prospettano, è un ascolto continuo, inesauribile che attraversa i giorni e le notti, inscindibile dal respiro.
E dentro questo mondo di pergamena il nord riverbera in ogni lato la sua luce, è un diamante ed anche forse è il segreto di tutta un’esistenza. Qui e non altrove pare dire la Galetto.
Il paesaggio a volte appare privo di sbavature di sole, provoca la stessa sensazione di un’abluzione nel gelo, un rito compiuto per il sacro dovere di unirsi al tutto. La poesia all’aperto cresce nella tessitura fiamminga di una folla di creature, di vegetali e minerali (acque, siepi, rovi, fiori, linee di colline, filari, alberi). Tutto si doma nel silenzio, si cattura con estrema lucidità. Anche qui, come nelle stanze, il dolore ascende, sconfina da un iniziale segreto per intestarsi ogni altra emozione ma nello stesso tempo sembra assumere i toni di un ringraziamento. Avverte se stesso come forza propulsiva e meditazione necessaria. La bellezza insomma che si conquista tra acerrime fatiche e che fa dire alla Galetto con un verso terso e vivido la sera e la mattina m’incomincio al mio/ sterrato senza voci.
Il paesaggio molto spesso è la neve ma anche la rosa più ardente, le cose scivolano parallele come le pene e le gioie che ci portiamo dentro, ma in entrambi i casi in questi versi gli intrecci delle speranze e delle sofferte verità mantengono comunque una loro grazia sia nella lividezza che nella limpidezza di mattini vissuti sotto il peso inamovibile della realtà.
In effetti l’intento è la reinvenzione della realtà. Leggere: Mele perfette per far tiare. Così all’interno come all’esterno, nei lati spogli e disarmati, negli angoli disattenti, nella crudezza della luce, lungo minime striature di legno, nelle foglie e nei voli improvvisi di creature vogliose di vita, (tortore, corvi, cigni, persino lucciole, falchi, conigli) nella distanza dalla pace, dall’indifferenza, negli anni senza un saluto, in tutto quello che è lasciato trapelare appare un dettato prorompente, una scintilla luminosa che sprigiona una sorta di propria via alla felicità.
E non esiste una sola riga in cui non sia presente una forma di generosità, l’offerta di sé, di attimi nei quali assimilare, narrare, condividere. Come quando con perfetto equilibrio sa darsi all’assolutezza di un compito scrivendo imparare a distinguere vero e falso/ solo guardando l’erba.
Lo vediamo, lo impariamo procedendo, le parole come le immagini si sovrappongono, si intersecano, collidono o ruotano in accordo nella stessa riga, collages di cose distanti che si cercano, che solo amalgamandosi riescono a svelare l’animo di chi le ha riunite mostrandone la profondità e l’intensità.
E poi: Chi mai sapeva chi fossi/ Chi mai sapeva delle mie trecce. Durezza. Non altro. Da cui nascono pregio e misura, nascono ritmo, essenzialità, unicità necessaria per trionfare sulle anonime pantomime dei molti il mio nodo s’annoda/ancor più stretto alla polvere/ nelle pieghe ruvide di un silenzio/ caparbio/ Soffoco piano/ ma non lascio volar via/ quel laccio/ Ché si dice la vita/ è fatta di certezze.
Poi d’improvviso, dopo il soffocare, dopo la pena che non dà tregua, in questa vita raggrinzita d’esasperato oltre le stanze, oltre il fioco confine dell’orizzonte ecco che tutto si apre, si scioglie, sconfina in una perfetta sintesi di elevazione.
E un solo verso è sufficiente a scaldare l’intero, quel suo farsi preghiera, quel chiedere un getto di pace nel buio che irresistibilmente riluce su tutto.

Vera D’Atri